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Comunque vada, sarà un disastro

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Democrazia uguale ipocrisia

L’obiettivo neanche troppo dissimulato di queste elezioni farsa è la riscrittura in senso presidenzialista della Costituzione.

Dopo che il Parlamento è stato progressivamente svuotato fino al punto di renderlo mera rappresentanza di lobbies finanziarie, conventicole dei cazzi propri e dopolavoro per ego smisurati, il Paese si trova di fronte ad una vera e propria emergenza democratica.

In questo processo consapevole di “cupio dissolvi” i sudditi – perché questo siamo noi che non viviamo in ZTL o non consideriamo Mussolini un buon politico – hanno sempre meno possibilità di riconoscersi in alcuna delle formazioni che si confronteranno (per modo di dire) il 25 settembre.

Chi si illude di dare voce al mondo del lavoro precario e sottopagato dei giovani – ma sempre più anche dei loro genitori – alle tematiche ambientali, alla giustizia sociale e alla presenza dello Stato, votando il centrosinistra, riceverà la solita fregatura.

Occorrerebbe di tanto in tanto guardarsi indietro, fare un po’ di storia della sinistra di governo degli ultimi trent’anni ed ammettere che il Partito Democratico si è sempre più allontanato dai cosiddetti ceti popolari per abbracciare il pensiero neoliberale. Basterebbe scorrere la XVII legislatura con i governi Letta-Renzi-Gentiloni per valutare oggettivamente le responsabilità di una classe politica, ma non siamo qua a fare i saputelli o i disfattisti. Meglio allora sorvolare, restare allineati e dire di quanto sia pericolosa quella fascista della Meloni?

Se Atene piange, Sparta non ride

Quel che si cerca di far arrivare, di tanto in tanto, su questo blog a chi non si riconosce in una tessera di partito o negli slogan preconfezionati da campagna elettorale è che bisognerebbe avere l’onestà intellettuale di ammettere che le élites del cosiddetto progressismo o sviluppismo – chiamatelo un po’ come vi pare – hanno da tempo abbandonato il riferimento sociale che è stato per decenni il loro serbatoio di voti.

Aver preso l’ascensore sociale verso l’attico ha significato mettersi alla testa del processo di globalizzazione con la convinzione di governarlo dall’alto con quel paternalismo borghese tipico di chi è “arrivato”.

Così, se da un lato ci si è continuati a presentare con il volto strutturato del partito amico, dall’altro si è dato il via ad un processo di autocompiacimento di stampo elitistico che ha portato a non considerare la portata delle disuguaglianze derivanti dai processi economici in atto o a mistificarne gli esiti.

Questa è la riflessione che non si fa mai,  salvo domandarsi (fintamente) attoniti perché operai, autonomi, partite IVA e ceto medio basso votino per chi caldeggia la flat tax.

Tranquilli, non siamo qua ad auspicare Il “Sol dell’Avvenire”!

Lo spostamento della ricerca di consenso dal “popolo” a quella verso i gruppi dirigenti economicofinanziari, percepita da molti come un tradimento ideologico, non lo è affatto. Si tratta, casomai, di una sorta di riposizionamento concettuale a favore della deregulation economica innescata negli anni ’80 dal fenomeno Reagan/Thatcher e culminata nell’ 89 con il crollo dell’antagonista storico per cercare di trarne governabilità.

Peccato che, prive di ancoraggi sociali e sempre più slegate da territori che incominciavano a puzzare di povertà crescente, le dirigenze “illuminate” della sinistra parlamentare si siano trasformate, in linea con il vuoto progettuale che sono andate via via riflettendo, in agenzie di mero marketing elettorale.

Il mondo del lavoro è diventato via via residuale ed è stato sostituito dal focus sui diritti civili. Tuttavia le sacrosante battaglie dai toni arcobaleno portano meno voti del previsto in un Paese culturalmente arretrato, anzi. Il paradosso più evidente in questo senso è stata la mancata approvazione del DDL Zan e i contemporanei rigurgiti clerico bigotti di una parte consistente di paese.

Va da sé che il ceto politico bipartisan si ritrova oggi con strumenti limitati di regolazione, di controllo e di identità. La “sinistra” è incagliata sulle secche di chi ha consegnato al mercato le prerogative del potere pubblico, soprattutto nel merito di settori chiave quali la sanità, l’istruzione, l’energia e l’ambiente. Dal canto suo la destra cerca di mediare la sua malcelata natura estrema e populista, accreditandosi presso il capitalismo finanziario attraverso la leva del consenso popolare di cui gode, presentandolo come il lasciapassare doveroso di governo in democrazia.

In direzione ostinata e sbagliata

A ben vedere, vivendo all’interno di una società in cui la competizione portata ai massimi livelli e la forbice sociale da questa derivante si traducono in operazioni finanziarie che si perfezionano con un movimento del mouse, non si può non pensare che la struttura degli stati democratici, così com’è concepita, possa essere divenuta obsoleta.

Ecco perché, con la vittoria di Giorgia Meloni e dei suoi alleati, la torsione in senso antidemocratico in atto nel Paese non potrà che peggiorare. Se questo basta per votare il PD, allora fatelo. Se invece pensate che nutrirsi di cultura sviluppista sia una dieta che non è alla portata di tutti, riflettete ancora un po’.

 

 

 

 

 

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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