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Tra politica, filosofia e cinema: riflessioni su presente e futuro con Paolo Furia

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Ittica: segretario regionale del PD, biellese, sostenitore di un partito che deve essere “più vicino alle persone comuni e che sappia intercettare energie nuove”, Paolo Furia come interpreta la necessità di rinnovamento, non solo anagrafico, del partito? Se è vero che la responsabilità politica si declina nel futuro e non nell’immediato presente, quali sono le strategie per uscire dall’assedio da continua campagna elettorale per tornare ad essere progettuali e magari dire, ma soprattutto fare, qualcosa di sinistra?

Furia: dici bene, assedio da continua campagna elettorale. Difficile impegnarsi su un progetto di medio-lungo termine, a livello nazionale, se ogni elezione locale viene trasformata, nell’immaginario mediatico, in un referendum sul governo di turno. A ben pensarci, ogni anno c’è qualche elezione. Questo produce una rincorsa continua al consenso immediato che fa commettere errori e tiene altissimo il livello della tensione. Se aggiungiamo che il quadro parlamentare è molto confuso, a causa degli esiti delle elezioni politiche del 2018 (un Parlamento che ha prodotto addirittura due governi Conte, il primo di destra estrema e il secondo di orientamento socialdemocratico…), offrire ai partiti politici un’identità chiara e riconoscibile diventa assai complicato. E poi c’è la pandemia globale, che di sicuro non facilita. Eppure, proprio di fronte alle sfide più difficili può ancora emergere una differenza tra destra e sinistra. Si può uscire dalla crisi sanitaria ed economica da destra, con una società più ingiusta e diseguale, divisa tra i sommersi e i salvati, attraversata da nuovi muri; oppure da sinistra. Ma uscire da sinistra non è certo un fatto retorico. Significa fare i conti con una lunga serie di cose che, per alcuni anni, anche il Partito Democratico non ha voluto o potuto fare. Lottare in favore di una redistribuzione sociale significa fare la patrimoniale e ridurre le tasse sulle aliquote più basse. Aumentare la produttività significa investire sulla pubblica amministrazione, non disfarsene. Rafforzare l’economia significa introdurre politiche industriali, avere asset pubblici nei settori strategici. Sussidiarietà nei servizi sociali e alla persona non può significare utili più alti per alcuni e stipendi più bassi per altri. Accettare la maggior flessibilità nel mondo del lavoro non vuol dire ammettere la perenne condizione di precarietà, dei giovani e non solo. Ottimizzazione dei servizi non significa tagliare i presidi territoriali, nelle valli e nei quartieri periferici come abbiamo fatto in questi ultimi 15 anni. Siamo pronti a tornare sui nostri passi e ad aprire una fase nuova della sinistra in questo paese? Penso che il PD oggi sia più pronto di alcuni anni fa, anche grazie al contributo di una rinnovata opinione pubblica e le pressioni di nuovi movimenti.

Ittica: a livello locale il prossimo appuntamento significativo in Piemonte sarà l’elezione del sindaco di Torino. Lasciando al PD l’onere di risolvere al suo interno il nodo delle candidature e se fare o no le primarie, non Le sembra che il problema principale del capoluogo piemontese, al di là dei tatticismi, posizionamenti e richiami alla “Torino bellissima”, continui ad essere “Torino indebitatissima”? Retorica del bello o pragmatismo nel far di conto per il futuro di Torino?

Furia: credo che sogno e pragmatismo debbano essere tenuti insieme. Un sogno per il futuro senza capacità di cogliere i problemi concreti ed urgenti della città non è che retorica; ma uno sfiduciato pragmatismo ci condanna ad un presente senza speranza. C’è un grande problema di fiducia a Torino. A parte poche note eccezioni, si riduce la propensione agli investimenti. La potente transizione postindustriale degli anni Novanta e Duemila, cominciata e guidata dal centrosinistra, è tuttavia rimasta incompiuta; una drammatica concorrenza territoriale ha messo sotto stress la città e con essa tutto il Piemonte, la cui economia ruota maggiormente sull’industria rispetto ad altre regioni d’Italia e d’Europa. I debiti contratti per accompagnare il processo di rinnovamento, anche urbanistico e culturale, della città sono diventati meno sostenibili dopo la crisi globale del 2008, scaricata sui pubblici poteri in generale e sugli enti locali in particolare, attraverso un drammatico scaricabarile. Una città davvero piena di potenziale come Torino deve continuare a reinventarsi innovando profondamente la sua industria, ma deve anche accettare di farsi policentrica, di rilanciare un’economia dei quartieri, rendendosi sempre più indipendente dai grandi attori economici del Novecento: grandi attori, ma profondamente trasformati e la cui propensione all’investimento a Torino si è, evidentemente ridotta. Ci vuole una politica autorevole ispirata dal grande motto gramsciano “pessimismo della ragione ottimismo della volontà”: occorre essere realisti nell’analisi, precisi nell’individuazione delle cause, non moralisti, non vittimisti; una buona analisi è precondizione necessaria della formulazione delle migliori risposte. Una politica indipendente, determinata ed autorevole, capace di analisi e risposta, potrà tentare persino la strada della rinegoziazione del debito che impedisce alla città di investire le risorse necessarie a invertire la tendenza critica di questi anni. In fondo l’interesse di tutti gli attori, pubblici e privati, deve essere il rilancio di Torino. E spesso la fortuna aiuta gli audaci.

Ittica: altro nodo della nostra regione, ma assai più drammatico per Torino, è l’inquinamento. Quale sarà l’approccio che dovrà avere la futura amministrazione per essere un esempio virtuoso da esportare? Si continuerà con la mobilità sostenibile secondo il modello piste ciclabili, monopattini e limitazioni del traffico, oppure, in caso di vittoria del centrosx, verranno messi a bilancio ulteriori investimenti a favore del trasporto pubblico? E dove pensa che si potranno reperire i fondi?

Furia: la trasformazione ecologica della città di Torino deve essere una priorità del centrosinistra. E’ un tema caro ai movimenti, ai giovani, agli abitanti delle zone più inquinate. E’ un tema intorno al quale la sinistra francese ha riconquistato Parigi e ha ottenuto la vittoria in città più conservatrici come Lione e Bordeaux. In quelle città, i candidati conservatori insistevano sulle solite parole d’ordine di sempre, anche molto ragionevoli: il buon governo, il supporto all’economia, etc. Ma non sono apparse sufficientemente preoccupate per il problema ambientale. Pensare all’ambiente significa non solo piste ciclabili e trasporto ecologico: significa una politica per le aree dismesse, che non sia completamente sottomessa agli interessi di mercato (gli ennesimi supermercati, la speculazione edilizia…). Strumenti di democrazia partecipativa possono essere messi in campo per comprendere le esigenze dei quartieri e orientare la ricerca di investitori e la redazione di progetti davvero utili ai quartieri; una riforestazione delle aree urbane, superando l’idea che il verde debba essere compartimentato nei parchi (secondo il modello urbanistico ottocentesco), quando invece può accompagnare strade, pareti di case, rotonde, angoli di strade, aree dismesse. Le limitazioni del traffico sono lo strumento emergenziale di chi non ha altre idee. Il tema è, anche supportando le politiche nazionali di incentivi all’acquisto di mezzi ibridi, idrogeno, elettrico (e l’idrogeno è meglio dell’elettrico…), produrre una evoluzione degli stili di consumo dei Torinesi. Rendere più semplice l’accesso a questi mezzi infrastrutturando la città. Investire su GTT, che deve rimanere un asset pubblico. E poi investire su di un servizio di mobilità leggera degno di questo nome, perché purtroppo il ToBike non è assolutamente all’altezza della domanda potenziale. La questione ecologica riguarda tutta l’Italia, l’Europa e il mondo. Tutti i settori della politica sono e saranno sempre più attraversati da questa attenzione verso la sostenibilità. Dobbiamo dimostrare che anche Torino è sul pezzo.

Ittica: come valuta il percorso di transizione ecologica degli ultimi cinque anni?

Furia: insufficiente. Uno scarto davvero grave tra le dichiarazioni e la realtà. Sul consumo di suolo non si sono fatti passi avanti. La metratura dedicata ai centri commerciali è persino aumentata rispetto a 5 anni fa. Le nuove piste ciclabili sono, in alcuni casi, di dubbio senso (su Corso Lecce i parcheggi per le auto sono stati piazzati tra la pista ciclabile e il controviale carrabile, col risultato che le auto appaiono parcheggiate in mezzo alla strada…). Lo stato del servizio ToBike, come dicevo, è del tutto incompatibile con lo standard di una città europea. Sentiamo poco parlare delle nuove frontiere in questa direzione: riforestazione, agricoltura urbana, etc.

Ittica: esiste un piano organico e coordinato tra Regione e Comuni per quanto riguarda l’ambiente e, se c’è, come pensa che potrà venire in aiuto il Recovery Fund?

Furia: per il momento la Regione ha dato l’idea che il Recovery Fund sia uno strumento con il quale finanziare una sommatoria di progetti sconnessi e non di sistema. Nelle schede presentate di fretta e furia, senza confronto in Consiglio Regionale, da parte della Regione al Governo, con la solita gran cassa mediatica cui il Presidente Cirio ci ha abituato, troviamo un elenco di progetti non concordati a livello di enti locali e con alcune carenze di contenuto. Assente un progetto sull’economia circolare, assente un piano per il superamento dei gap territoriali in materia di infrastrutture digitali e di trasporto pubblico (elettrificazione reti ferroviarie minori e servizi per pendolari, etc, recupero stazioni abbandonate). Next generation EU è una straordinaria opportunità di ripensamento del paese tutto e deve finanziare politiche di sistema in grado di produrre un impatto omogeneo sul territorio nazionale. Per capirci: se deve servire a ridurre le emissioni di gas serra in Italia da qui al 2030, le politiche che andrà a finanziare non possono essere svolte attraverso progetti a macchia di leopardo, che possono essere vinti come non vinti da diversi distretti territoriali. In questo senso il recovery plan è una strategia importante di cui anche Torino dovrà beneficiare, attraverso l’identificazione delle priorità specifiche da far valere in relazione ai pilastri europei del piano. Quali sono gli obiettivi che Torino deve raggiungere in materia di: digitalizzazione; infrastrutture per la mobilità; transizione ecologica; equità territoriale, di genere, sociale (compresa edilizia sociale etc); scuola, università, ricerca; salute? Sono queste le domande cui si deve rispondere.

Ittica: Lei vanta un curriculum studiorum importante in filosofia. Qual è il giusto mezzo tra l’eccellenza dei modelli teorici e la loro “portabilità” nella realtà? Come si concilia la figura del politico, ancorché preparato, con la dialettica della società odierna legata perlopiù a semplificazioni concettuali estreme?

Più che produrre modelli teorici, la filosofia sottolinea l’importanza di porsi delle domande. Per me questo è un punto molto importante. Quasi mai un modello teorico elaborato nel pensiero può realizzarsi nella realtà. Non solo perché la realtà sociale di oggi si affida a semplificazioni concettuali estreme. Ma soprattutto perché la realtà è, sempre, più complessa di qualsiasi modello utopico nella quale la si vorrebbe costringere. La filosofia, come pratica di un “sapere di non sapere”, aiuta innanzitutto a mettere in dubbio le verità precostituite, le autorità che si ritengono intoccabili, le opinioni che sono reputate vere solo perché espresse dai potenti. In questo senso la filosofia è a tutti gli effetti una pratica politica. L’esito dell’interrogazione filosofica d’altronde non è l’eliminazione di ogni autorità: si tratta invece di riconoscere l’autorità legittima e di concordare, attraverso il pubblico dibattito, i suoi limiti e confini, oltre i quali un’autorità diventa dispotica e irrazionale. Non è la dissoluzione di tutte le credenze: semmai si tratta di riconoscere le credenze come sempre parziali e mai assolute. Non è la chiusura in una torre d’avorio degli intellettuali che tutto criticano senza impegnarsi nel tempo che è loro dato vivere; al contrario, si tratta di riconoscere la condizione sempre “impegnata” di ogni pensiero, dunque la necessità di esercitarlo per i valori che si ritengono giusti. In questo senso la filosofia prepara la politica e la politica, per non scadere in mera gestione amministrativa del quotidiano, ha bisogno della filosofia.

Ittica: pare ormai chiaro che oggi abbiamo smesso di credere all’idea di un progresso lineare e continuo. Tale prospettiva, appartenente al progetto democratico, sembra essere stata sostituita da uno stato di imbarbarimento culturale e sociale a cui i partiti della sinistra italiana ed europea non sembrano in grado di opporre una narrazione convincente “dal basso”. Come la vede?

Furia: nella storia si alternano continuamente due modi di intendere l’evoluzione della società. Uno, se vogliamo, ottimistico, secondo il quale saremmo coinvolti in un processo di miglioramento continuo come individui, come conoscenze scientifiche e tecnologiche, come qualità dei rapporti sociali. Un altro contrario, se vogliamo pessimistico, secondo il quale siamo sempre di fronte al baratro di un inedito imbarbarimento culturale e sociale. In questo secondo modo la pensava per esempio Cicerone a ridosso del passaggio dalla repubblica all’impero romano, ad esempio. In realtà io credo che ogni epoca presenti, rispetto a quella precedente, tratti di progresso e di regressione. Ad esempio, quando in un’epoca tutto sommato recente i partiti erano una cosa seria, le classi dirigenti venivano cooptate sulla base del merito e dell’adesione all’ideale, l’economia era più legata ai processi di decisione pubblica nazionale, c’erano tuttavia altri problemi: una scarsa sensibilità per i diritti civili, colmata a suon di lotte anche molto forti e trasversali ai partiti politici; una cattiva sensibilità ambientale, che ha portato alla diffusione di materiali poco costosi sul mercato (di qui tanti problemi connessi al costruito anni ’60 e ’70 del nostro paese…), mostri ecologici, inquinamento, amianto. Oggi ci sono più possibilità e anche più rischi ad esse collegati (basti pensare alle incredibili evoluzioni del cyberspazio, i social network, la mappatura digitale, l’internet delle cose). Occorre non perdere mai la lucidità critica di saper cogliere, in tutti i processi evolutivi che attraversano una società, limiti e possibilità. Per esempio è un fatto che i nuovi modelli di lavoro, il toyotismo, ma anche i nuovi mondi della comunicazione e dell’espressione di sé, i social, gli influencers producano una “cultura delle bolle”, che rende più difficile l’emergere di narrazioni comuni, per esempio di classe. Viviamo in un mondo molto connesso e nello stesso tempo molto compartimentato, un mondo nel quale gli adulti non sanno quali prodotti culturali consumano i giovani, un mondo in cui si fa ancora fatica a parlare di sessualità nelle scuole mentre i bambini la imparano su internet, un mondo in cui la geografia è data per scontata perché tutto è globalizzato ma nello stesso tempo si ha paura delle migrazioni. La sfida di oggi è come creare comunicazione tra linguaggi, culture e obiettivi sociali diversi, i quali, proprio per carenza di comunicazione e di raccordo, degenerano in corporativismi, individualismi e forme anche patologiche di narcisismo. Ecco perché credo che sia molto importante guardare ad alcune grandi sfide globali, che interpellano l’umanità intera: la sfida del surriscaldamento del pianeta, quella della sicurezza alimentare, quella di un nuovo riequilibrio tra pubblici poteri e multinazionali dell’energia e del digitale, quella della trasparenza dei dati e della pubblicità delle grandi piattaforme che realizzano inediti spazi di vita, a partire da quelli digitali. Se la sinistra non è in grado di interpretare questi fenomeni e di rivolgersi, dentro i nuovi conflitti, i soggetti più in difficoltà, quelli che più rischiano di soccombere a causa delle disuguaglianze sociali, economiche, territoriali, digitali, ambientali, non ha senso.

Ittica: il complottismo fa riferimento all’idea che la colpa sia sempre da imputare ad altri e che la nostra condanna sia il frutto di trame oscure ordite in segrete stanze. Più prosaicamente non Le sembra che l’autonomizzazione dell’economia dalla politica e il conseguente esasperato mercantilismo della società debbano trovare dei correttivi istituzionali invece che richiami ai “pieni poteri” e altre “amenità” da XX° secolo? È sufficiente pensare che una nuova rivoluzione culturale porti ad un nuovo paradigma di progresso?

Furia: sì sono d’accordo. Non si può rispondere alle disuguaglianze comportate dalla globalizzazione con la retorica dei pieni poteri. Ma è un fatto che oggi nel mondo la democrazia sia sempre più isolata. La tendenza prevalente è quella di affrontare la complessità del tempo in cui viviamo attraverso meccanismi di semplificazione del governo, che lo rendano meno vulnerabile alle contestazioni interne e alle minacce esterne e più capace di controllo. L’impotenza della politica degli anni ’80, ’90 e ’00 del secolo scorso ha prodotto, come reazione, la ricerca di leadership forti, supportate da un più o meno distorto consenso oceanico. Eppure anche questo ci dice qualcosa che, prima che essere contrastato, merita di essere compreso fino in fondo. Cosa ci dice il ritorno delle società dei “pieni poteri” sulla scena globale? Secondo me, dietro a tutto questo c’è il desiderio di contrastare l’onnipotenza del mercato e la sua autonomia completa rimettendolo sotto il controllo dell’autorità pubblica, in grado di piegare i meccanismi del capitalismo a fini individuati dalla politica. E ciò che dobbiamo chiederci è se esista un modo per rispondere da sinistra a questo desiderio, a questa esigenza di maggior controllo del pubblico. Credo che una risposta di sinistra a questa esigenza non sia certo il ritorno ai piani quinquennali e ad un’economia integralmente statalizzata, cosa che, talvolta, i reduci del socialismo reale sembrano auspicare. La risposta di sinistra deve tenere ferma la barra della democrazia contro ogni tentazione autoritaria; ma perché la risposta sia efficace, allora occorre che la democrazia sia efficiente, sappia decidere, sappia agevolmente coordinarsi a livello internazionale per esprimere i propri fini e perseguirli. E non penso solo alla democrazia nazionale. Il processo di integrazione europea, di unione bancaria, la realizzazione di alcune tasse a livello europeo per il perseguimento omogeneo di determinati standard in materia di welfare e diritti sociali, una Commissione europea votata dal popolo, il superamento del diritto di veto dei governi sulle politiche europee più importanti sono tutti fattori decisivi per restituire alla politica democratica la forza di decidere, di produrre conseguenze efficaci e visibili. L’obiettivo è quello di mantenere i paesi democratici in una posizione di non marginalità, in un contesto globale caratterizzato da un numero sempre maggiore di potenze che si affidano, in vari modi, all’autoritarismo e alla violenza del capo.

Ittica: chiudiamo con una battuta di Stanley Kubrick ai tempi in cui, lavorando al film Full Metal Jacket, descriveva l’addestramento dei Marines dicendo: “abbiamo incontrato il nemico: siamo noi”. Non sembra che ci sia del vero in questa affermazione del regista usata a confutazione di un processo apparentemente privo di difetti? In altre parole: i nemici della democrazia stanno al suo interno?

Furia: credo che il principale nemico interno della democrazia sia la convinzione, tipica delle generazioni che non hanno conosciuto le lotte che si sono svolte per conquistarla, che essa sia una conquista irrevocabile. Occorre invece vigliare affinché le conquiste migliori del Novecento, tra cui voglio annoverare l’welfare universalistico, la scuola, la sanità e l’università pubbliche, la libertà di espressione, di pensiero e di associazione, il diritto ad un’equa retribuzione siano difese in un contesto che mi appare piuttosto ostile ed insidioso. Alle conquiste del Novecento ne vanno aggiunte altre, tipiche di una sensibilità più recente: il diritto ad un ambiente sicuro e sano, il diritto a spostarsi, il diritto alla casa, il diritto di amare chi si vuole. Si tratta di una straordinaria agenda che tuttavia non va letta in chiave difensiva. Per difendere la scuola pubblica, per esempio, non basta contrastare i tagli; occorre una politica attiva che guardi tanto alle strutture (un’edilizia scolastica salubre e funzionale) quanto al capitale umano (formazione del personale, nuove assunzioni e assorbimento del precariato). Per sorreggere un pubblico settore più forte ed efficiente occorrono più competenze e più risorse: e le risorse bisogna andare a prenderle dove ci sono. Per questo la carbon tax, la digital tax (a livello europeo), una patrimoniale, sono esigenze reali, non più rinviabili. La democrazia si difende praticandone i valori, non solo predicandoli. Siamo nemici di fatto della democrazia quando non ci rendiamo conto che essa non è solo una serie di procedure che servono ad eleggere con suffragio universale i nostri rappresentanti, cosa che pure ha una grande importanza. La democrazia presuppone parità di accesso alla vita politica, alle opportunità economiche, agli strumenti di tutela sociale, agli spazi: tutte condizioni gravemente minacciate e solo in parte conseguite. Ecco perché l’agenda dei democratici non è mai stata più viva ed attuale.

 

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Esimio "signor nessuno", anarcoinsurrezionalista del tastierino, Scienze politiche all'Università, ottico optometrista per campare. Se proprio devo riconoscermi in qualcuno, scelgo De André. Ciclista da sempre, mi piacciono le strade in salita. Ci si vede in cima.
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